A Hiroshima ci sono le stelle, le puoi vedere da ogni lato della città quando il cielo è pulito.

Cammino verso la stazione per prendere l’ennesimo autobus che mi porterà lontana e penso a quanto settant’anni fa le stelle non si vedevano, non si veda un bel niente per dir la verità: la polvere delle strade si mescolava al fumo delle case in fiamme e quella notte no, le stelle non c’erano. Nemmeno in quelle seguenti, al loro posto solo pioggia, pioggia nera. Chissà quanti hanno guardato il cielo quei giorni cercando un punto di riferimento, qualcosa di familiare in quella città che non esisteva più: niente più case, bonsai dalle forme curate o giardinetti. Niente fontane, niente persone… niente.

Una sopravvissuta ha raccontato che in quei giorni esistevano solo tre colori a Hiroshima: nero, marrone e rosso. La pelle si accappona al solo pensiero di quella tavolozza di colori spenta che sa solo di distruzione, devastazione e morte. Nero, marrone e rosso. Nero è ciò che ha lasciato il fuoco; marrone della polvere sollevata dalle macerie, rosso del sangue.

Sto attraversando il ponte che mi separa dalla stazione, tutto intorno alti edifici in vetro illuminati si specchiano nell’acqua come niente fosse ma in fondo che ne sanno loro? Loro mica c’erano, a loro non hanno raccontato nulla di cos’è successo prima, prima quando qualcuno si è sentito in diritto di spazzar via vite, sogni, speranze portando a Hiroshima il peggiore dei deserti: quello fatto dall’uomo, un deserto che si mangia le persone da dentro, anche dopo tanto tempo.

C’era un parco dove l’imperatore molto, molto tempo fa era solito piantare il riso. C’è un altro parco oggi nello stesso posto, senza riso, ma con grandi carpe affamate, palme e piccole pagode in legno. C’è anche una targa proprio nel punto in cui l’inferno è iniziato, è adornata da centinaia di gru di carta: simbolo di rinascita, di pace e di speranza. Sembra impossibile da credere, solo settant’anni che sembrano oggi così lontani, così irreali, così impossibili.

C’è un museo a Hiroshima. Un museo dove tante piccole storie vengono raccontate da oggetti bruciati, imbrattati, coperti di sangue. Berrettino dopo berrettino, scarpa dopo scarpa, portamerenda dopo portamerenda il cuore si riduce ad una mandorla da quanto è strizzato. C’è un sandalo, era di una bimba mai ritrovata, la madre lo ha scoperto sotto le macerie e riconosciuto per quel lembo del suo vecchio kimono con cui ne aveva fatto il laccio.

Ci sono delle foto dei corpi bruciati dalla potenza di quel sole fasullo, sciolti come i manici di plastica della padellina che da piccola avevo messo sul fuoco. Metafora infelice, lo so, ma può esserci qualcosa che non lo è in tutto questo?

Ci sono le tegole dei tetti, si possono toccare e sentire così sotto i polpastrelli le bolle della parte esposta alle radiazioni che si contrappongono alla superficie liscia di quella che invece non lo era. Tutto bruciava, tutto si scioglieva, tutto spariva in quei tre colori: nero, marrone e rosso.

Oggi il museo è pieno e è la prima volta che questo non mi da fastidio, che non me la prendo per qualche spintone di troppo: dovremmo essere anche di più qua dentro per non dimenticare cos’è successo a questa città a cui hanno portato via tutto in un flash, a cui sono riusciti a cancellare perfino le stelle.

Hiroshima questa sera profuma di rinascita, sa di primavera anche se l’aria ancora pizzica d’inverno.

Su Hiroshima questa sera ci sono un sacco di stelle e è bellissimo, di nuovo.

Il mio cuore a Hiroshima si è ridotto a una nocciolina da tanto si è stretto nel dolore che questa città ha provato sulla propria pelle. Qual è la tua esperienza? Raccontacelo nei commenti